I NUMERI NON MENTONO
Ogni volta che sui social, al bar o in fiera si entra nell’argomento “pesca professionale in acqua dolce”, subito si alzano i toni e la discussione si anima. Da un lato i pescatori sportivi accusano i professionisti di essere la causa del declino nelle acqua interne, ai quali i professionisti della pesca rispondono parlando di lavoro onesto e di attività necessaria alla sussistenza.
Ma chi ha ragione? E’ possibile, dati alla mano e senza dubbi, definire i confini della faccenda? Io ci ho provato, attraverso ricerche sui principali mercati ittici nazionali e utilizzando un minimo di buonsenso. Andando a rispondere ad alcune domande.
Quanto vale il pesce d’acqua dolce?
Prendiamo in considerazione tre specie che sono di interesse sia per il mercato ittico sia per i pescatori sportivi: carpa, luccio e tinca. Mediando i prezzi disponibili online (all’ingrosso) si ricavano valori di 2,5 euro/kg per la carpa, 5 euro/kg per la tinca e 7,5 euro/kg per il luccio. Si tratta di prezzi che non considerano eventuali percentuali dovute a mercati e distributori, quindi in linea di massima sono arrotondati per eccesso.
Quanto guadagna un pescatore?
Per rispondere a questa domanda non dispongo di dati precisi riferiti alla categoria dei pescatori di professione. Mi rifaccio quindi ai calcoli di qualsiasi libero professionista, che per ottenere un ricavo mensile ai limiti della decenza (circa 1500 euro) deve operare con un lordo di circa 3000 euro al mese. Questo senza considerare eventuali spese accessorie, nel caso del pescatore gli attrezzi, una imbarcazione con relativo motore, il carburante e la manutenzione. Quindi anche in questo caso il nostro calcolo è sempre arrotondato in favore del pescatore professionale.
Quanto pesce si deve pescare per sopravvivere?
Ora il calcolo si fa piuttosto semplice. Nel caso si prendessero solo carpe, ne servirebbero 1200 kg ogni mese. Diventano 600 per la tinca e 400 per il luccio. Ma visto che raramente la pesca risulta monospecie, ipotizziamo di dividere equamente le cifre, quindi 1000 euro di ricavo per ogni specie: il totale parla di 400 kg di carpe, 200 kg di tinche e 133 kg di lucci. Quindi oltre 730 kg di pesce ogni mese, circa 30 ogni giorno, per un solo pescatore con uno stipendio ridicolo.
Ma l’anguilla non vale molto di più?
Tra i pesci d’acqua dolce l’anguilla è sicuramente uno dei più interessanti, con un buon valore commerciale. A differenza delle altre specie citate, non si riesce a catturare ovunque e tutto l’anno, oltre ad essere abbondantemente allevata e quindi disponibile. Utilizzare l’anguilla in questo tipo di analisi non ha quindi senso.
Chi compra il pesce d’acqua dolce?
Se escludiamo zone a vocazione particolare, nei pressi di grandi laghi ad esempio, con una forte tradizione culinaria, pesci come la carpa, la tinca o il luccio non hanno un mercato così fiorente. L’aumento di popolazioni straniere con abitudini culinarie diverse ha portato ad un leggero incremento ma solo sulle specie di valore più basso quali il siluro o la carpa. Rimanendo comunque un mercato di nicchia.
Quindi dove finisce l’invenduto?
Grosse quantità di pesce d’acqua dolce invenduto prendono la via della produzione di farine animali, a prezzi intorno a 1 euro per chilogrammo. Sostanzialmente nulla. Svariati quintali percorrono altre strade, verso l’estero. Come e perchè evitiamo di ripeterlo…
Quanto costa alla collettività tutto questo?
Va considerato che, come anche per la pesca professionale in mare, la pesca in acque interne beneficia di sovvenzioni e aiuti. Basta cercare tra i bandi di ogni Regione interessata, senza contare i vari progetti di valorizzazione e ripopolamento con cadenza annuale.
Quindi?
Alla luce di questa analisi, assolutamente approssimata ma non troppo distante dalla realtà, trovo personalmente conferma alla mia idea: la pesca professionale in acque interne in Italia non è sostenibile, non ha ragione di esistere e non rappresenta un valore aggiunto all’economia. Puo’ avere senso, in maniera strettamente limitata e regolamentata, solo a livello di attività tradizionale nelle zone (grandi laghi o fiumi) con una particolare vocazione. Di sicuro non con numeri industriali. L’unico modo per rendere la pesca professionale in acque interne redditizia è svolgerla al di fuori delle regole e con strumenti illegali, una considerazione di cui mi prendo assoluta responsabilità.
E quale sarebbe l’alternativa?
Questa è la domanda che spesso viene tirata in ballo quasi a voler chiudere la discussione. Che alternativa diamo noi pescatori sportivi?
Prima di tutto è necessario sospendere immediatamente il rilascio di licenze professionali a cittadini non italiani. I pescatori nazionali posso essere impiegati nelle già citate zone “particolari”, sotto stretta regimentazione, o diventare guardie dei corsi d’acqua che conoscono estremamente bene. Un impiego al servizio della comunità, essenziale e sostenibile.